Con riferimento al regolamento UE 1116/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, si è constato che, se da un lato, lo stesso ha raggiunto l’obiettivo di semplificare e potenziare l’informazione fornita al consumatore per rendere quest’ultimo maggiormente consapevole nei confronti delle proprie scelte, dall’altro lato, il legislatore comunitario non ha conseguito l’ulteriore scopo che si era prefissato, ossia quello di armonizzare ulteriormente le disposizioni in tema di etichettatura. Infatti, posto che l’art. 39 permette ai singoli Stati di introdurre ulteriori indicazioni obbligatorie rispetto a quelle previste dall’art. 9 sulla base di determinati motivi (ed in particolare, protezione della salute pubblica, tutela dei consumatori, prevenzioni delle frodi, protezione di diritti di proprietà industriale e repressione della concorrenza sleale), il legislatore ha mantenuto la possibilità per i singoli Stati membri di legiferare in materia di etichettatura a livello nazionale. La dottrina ha posto in luce come detta apertura a favore delle legislazioni nazionali rischia di creare una «discriminazione a rovescio per gli operatori di un determinato Stato membro». Infatti, posto che gli Stati – in forza del principio della libera circolazione delle merci – non possono bloccare il commercio di alimenti etichettati in base al regolamento, tuttavia gli stessi possono imporre oneri più gravosi ai propri produttori nazionali, con la conseguenza che, all’interno di un mercato unico, questi ultimi si troveranno in una posizione di evidente svantaggio rispetto agli altri operatori.
In relazione al regolamento in esame, ci si è chiesti poi se gli obblighi introdotti dal legislatore comunitario non siano sovrabbondanti e non comportino uno spostamento della responsabilità dal produttore al consumatore medesimo. In altre parole, occorre accertare se, a fronte dell’aumento degli obblighi informativi posti in capo al produttore, si stia assistendo anche ad un incremento della responsabilità (o meglio dell’autoresponsabilità) del consumatore con la conseguenza che, una volta che l’operatore del settore alimentare responsabile delle informazioni sugli alimenti (ossia l’operatore con il cui nome o con la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto o, se tale operatore non è stabilito nell’Unione, l’importatore nel mercato dell’Unione) si è attenuto alle norme pubblicistiche concernenti le informazioni del prodotto, tutta la responsabilità si sposti sul consumatore in capo al quale si dovrebbe, quindi, ravvisare, non soltanto un diritto ad essere informato, ma anche un dovere di informarsi. In particolare, si tratta di verificare se, posto che la previsione di obblighi informativi sempre più minuziosi comportano maggiori oneri in capo al produttore, detto appesantimento sia limitato al momento della fornitura delle informazioni, oppure, se la responsabilità permanga anche qualora il prodotto venga presentato con tutte le informazioni conformi alle specifiche regole.
Su questo specifico punto, a prima vista sembra che il legislatore, attraverso il regolamento, pur incrementando gli obblighi informativi posti in capo al produttore, non abbia inteso spostare la responsabilità in capo al consumatore, atteso che diversamente ragionando – ossia aderendo all’opposta tesi secondo cui la normativa comunitaria avrebbe incrementato le responsabilità del consumatore – si frustrerebbe il primario obiettivo perseguito dal testo comunitario, ossia quello del conseguimento di un livello elevato di protezione della salute. Difatti, salvo rare eccezioni – si pensi, per esempio, ai soggetti allergici o a coloro che soffrono di intolleranze alimentari – il consumatore spesso non è nella migliore posizione per prevenire il danno soprattutto perché non è in grado di cogliere appieno il contenuto dell’informazione ricevuta; infatti, se da un lato, il legislatore comunitario ha voluto migliorare la comprensione delle informazioni alimentari al fine di consentire ai singoli di operare delle scelte libere e consapevoli, spesso tuttavia l’individuo non è concretamente in grado di recepire l’informazione o perché non dispone delle conoscenze giuridiche, scientifiche e tecniche necessarie per potere leggere e comprendere pienamente il contenuto delle etichette – e ciò a prescindere dalla chiarezza, leggibilità e precisione dell’etichetta medesima – o perché, essendo le informazioni fornite sui prodotti sempre più abbondanti, detta circostanza potrebbe comportare delle forme di cecità parziale rispetto a determinate informazioni che sono presenti in etichetta. In aggiunta, sempre al fine di dimostrare come il consumatore potrebbe incontrare diverse difficoltà nel comprendere il contenuto delle informazioni fornite dal produttore – e quindi come sotto questo profilo non sembra condivisibile porre sul consumatore l’intera responsabilità nonostante questo oggi si trovi ad essere sempre più informato circa gli alimenti che consuma – occorre considerare che, di fatto, l’obiettivo perseguito del legislatore comunitario diretto alla semplificazione delle regole concernenti l’etichettatura dei prodotti alimentari non è stato perseguito. Così, per esempio, si è notato come il regolamento preveda che gli Stati possano integrare la legislazione comunitaria con provvedimenti nazionali nelle parti che non sono disciplinate da regole comuni e sempre che l’esercizio di detta opzione non ostacoli la libera circolazione della merce. Tuttavia, la maggiore possibilità degli Stati membri di integrare la normativa, non sempre comporta una maggiore chiarezza e trasparenza per il consumatore che si trova a doversi confrontare con regole diverse da Stato a Stato. Inoltre, l’obiettivo perseguito dal legislatore di realizzare una maggiore semplificazione normativa non sembra essere stato realizzato anche a causa dell’introduzione graduale delle disposizioni previste nel regolamento; infatti, seppure esistono chiare ragioni economiche (come, per esempio, l’esigenza dei produttori di avere un certo lasso di tempo a disposizione per adeguarsi) che hanno indotto il legislatore ad operare in tal modo, è palese però che la predetta soluzione non risponde esattamente all’obiettivo di semplificazione e non rende più agevole la comprensione nonché la chiarezza delle informazioni fornite al consumatore.
In termini conclusivi, sotto un primo aspetto, si può affermare che il legislatore comunitario tramite il regolamento, seppure intendeva rendere maggiormente chiara la comprensione delle etichette poste sugli alimenti – e quindi, consapevolizzare sempre più il consumatore nei confronti delle proprie scelte – in realtà detto obiettivo non sembra essere stato pienamente raggiunto, con la conseguenza che, sotto questo specifico profilo, la responsabilità stessa dovrebbe permanere in capo alle imprese produttrici che, peraltro, si trovano tendenzialmente nella migliore posizione per prevenire i pregiudizi ed internalizzare i costi, incrementando i costi del prodotto finale.
Tuttavia, l’accoglimento tout court di tale impostazione – secondo cui, appunto, a fronte degli incrementi degli obblighi informativi posti in capo al produttore di alimenti non sussiste un aumento della responsabilità del consumatore di detti prodotti – se per un verso, in termini generali può essere condivisibile alla luce delle argomentazioni sopra svolte, per altro verso, occorre osservare come detta soluzione non sembra sempre accettabile sotto il profilo per cui, in tal modo procedendo, si induce in ogni caso a deresponsabilizzare il consumatore nei confronti delle proprie scelte e si pone, pertanto, in contrasto con il sempre più valorizzato principio di auotoresponsabilità che impone al singolo il dovere di rispondere delle proprie scelte. In tale ottica, dunque, si dovrebbe sostenere che, in determinati casi, ossia nel momento in cui il consumatore – debitamente informato – è posto effettivamente nella condizione di operare una scelta libera e consapevole, sarebbe opportuno porre il peso dei danni conseguenti ad una sua autonoma scelta sul consumatore stesso. In altri termini, sembra contrario ai principi perseguiti non solo all’interno del nostro ordinamento giuridico, ma anche in altri sistemi diversi da nostro, a fronte di un incremento delle informazioni a lui dirette, non responsabilizzare il consumatore nelle ipotesi in cui lo stesso avrebbe, in concreto, potuto apprendere le informazioni a lui dirette e quindi evitare il verificarsi dell’evento dannoso.
Ecco dunque che, alla luce dei rilievi sopra svolti – ossia, da un lato, la necessità di responsabilizzare le imprese che operano nel mercato alimentare anche alla luce degli obiettivi di deterrence che si dovrebbero perseguire e, dall’altro lato, l’esigenza di tenere conto del sempre più valorizzato principio di autoresponsabilità – si dovrebbe verificare se, effettivamente, nel singolo caso concreto portato all’attenzione dell’interprete, il consumatore sia stato posto in grado di operare una scelta libera e consapevole; in tale ottica, ossia al fine di determinare se l’incremento delle informazioni concernenti gli alimenti abbia comportato, a sua volta, un aumento della responsabilità in capo al consumatore, potrebbe essere opportuno verificare, di volta in volta, per esempio, se l’informazione risulti o meno sostanzialmente comprensibile per il consumatore a cui è rivolta e se il singolo consumatore a cui è destinato il prodotto è in grado di apprendere l’informazione e, quindi, se, per esempio, lo stesso è in possesso delle conoscenze scientifiche e tecniche per comprendere effettivamente il contenuto dell’etichetta.